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10 Maggio 2023Invitato al convegno Legacoop Romagna “Demografia e qualità della vita” a Cesena, il 28 aprile 2023, il presidente della Cooperativa sociale Cento Fiori di Rimini Cristian Tamagnini ha affrontato i temi aperti dalla “narrazione mainstream” per il “calo demografico” in rapporto a Sanità, Welfare, Pensioni.
L’intervento integrale di Tamagnini al convegno Legacoop Romagna “Demografia e qualità della vita” a Cesena, il 28 aprile 2023.
Sanità e welfare sono temi sensibili per noi. E quando parliamo di “calo demografico” in rapporto a Sanità, Welfare, Pensioni, il ritornello meinstream è sempre lo stesso: “abbiamo vissuto per anni al di sopra delle nostre possibilità; abbiamo fatto le cicale invece che le formiche; i padri stanno rubando il futuro ai figli; oggi non ce n’è per tutti; non ci sono i soldi e quindi dobbiamo tagliare sanità, welfare, pensioni (sistemi che oggi non possiamo più permetterci come in passato)”.
Consentitemi una Contronarrazione: proverò a fornirvi dati che costituiscono i tasselli di un quadro un po’ diverso da quello mainstream:
Debito pubblico: dal 1980 al 1992 passa dal 57,7% al 124,3% del PIL;
Spesa pubblica italiana: nello stesso periodo – al netto degli interessi sul debito – era al 42-43% del PIL, contro il 47-48% dell’Eurozona; mentre il PIL negli anni ’80 cresce a una media del 3% annuo (dal 1984 al 1990 periodo di crescita ininterrotta più prolungato)
Reale motivo dell’esplosione del debito pubblico: dal 1981 al 1992 la spesa per interessi in Italia passa dall’8 al 13% mentre la media nell’Eurozona passa dal 3,5 al 4,4% (quindi gli interessi sul debito pubblico erano 3-4 volte quelli della media europea).
E questo perché succede? Nel 1981 avviene il divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, che non interviene più nell’acquisto di titoli di stato e quindi espone il nostro debito pubblico a manovre speculative aggressive.
Perché viene fatto questo? Si diceva: per contenere l’inflazione, abbattendo i salari tramite politiche deflattive (l’allora ministro del tesoro Beniamino Andreatta definì “demenziale” l’accordo tra sindacati e Confindustria per rafforzare la scala mobile, poi abolita nel 1992)—-> In realtà l’impennata inflazionistica degli anni ’80 era dovuta agli shock petroliferi degli anni ’70, come oggi molti economisti concordano (come sta accadendo anche oggi, del resto: salari bassi, energia alle stelle, inflazione alle stelle).
Ma vediamo cosa è poi successo fino ai giorni nostri (in più di 30 anni di politiche neoliberiste, privatizzazioni e austerity) e se è vera la narrazione che dice ”abbiamo scialacquato”
Dal 1990 al 2019 l’Avanzo primario (differenza tra entrate e uscite dello Stato, al netto del costo degli interessi sul debito pubblico) in media in Italia è stato del 1,75% rispetto al PIL (Italia 1° paese in UE, 11° tra oltre 100 Stati nel mondo) – Dati del FMI.
Spesa sanitaria complessiva nel 2019 (pre Covid): Italia 8,7% del PIL, agli ultimi posti tra i grandi paesi europei (Germania 11,7%, Francia 11,2%, Olanda 10%, Spagna 9%).
Spesa Sanitaria pubblica: nel 2019 è stata del 6,4% del PIL (nel 2025 arriverà al 6,2%; altroché “ne usciremo migliori”).
Spesa sanitaria pubblica pro-capite nel 2021: ben al di sotto della media OCSE ($ 3.052 vs $ 3.488) e in Europa ci collochiamo al 16° posto (Rapporto Fondazione Gimbe).
Istruzione: l’Italia investe l’8% della spesa pubblica totale (Ultimi in Europa). La media UE è del 10%, mentre Francia e Germania si attestano rispettivamente sul 9,5% e 9,6%. (Dati Rapporto 2021 della Commissione Europea per l’Istruzione).
Abbiamo troppi dipendenti pubblici? In Italia costituiscono meno del 15% degli occupati, contro una media Ocse del 18%.
Dal 1990 al 2020 i Salari in Italia sono crollati al -2,9% (unica nazione in Europa), in Germania +33,7%, in Francia +31,1%. Consideriamo poi che abbiamo un 12% di working poor (di lavoratori tra i 18 e i 64 anni a rischio povertà), contro una media europea del 9%.
Il salario orario è sceso anche perché negli ultimi trent’anni sono aumentati i settori lavorativi low-skilled – innanzitutto servizi alle famiglie e turistici – le cui retribuzioni non permettono di uscire dalla povertà.
Dagli anni ’60 al 2016 la Quota salari (wage share) sul PIL è diminutita di 9 punti (anche di più se si considera che nella quota salari vengono conteggiati pure gli stipendi dei Top Manager).
A fine 2021 la Ricchezza detenuta dal 5% più ricco degli italiani (41,7% della ricchezza nazionale netta) era superiore a quella detenuta dall’80% più povero (31,4% della ricchezza nazionale netta).
I Super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli Italiani) sono titolari di una ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri – Dati Oxfam.
Nel 2021 in Italia vi sono 5,6 milioni di Poveri (1 milione in più rispetto al 2019) – rapporto Censis.
Veniamo al Sistema pensionistico:
Dati Inps al 31 dicembre 2021: abbiamo 16 milioni di pensionati (1/4 circa degli Italiani), vengono erogati 305 miliardi di euro (circa il 15% del PIL).
Se però scorporiamo previdenza e assistenza (pensioni di invalidità, assegni familiari, ecc.) – come ha fatto Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e consulente ministeriale – vediamo che nel 2019 (anno che ha preceduto la pandemia da COVID) la spesa per pensioni italiana è ammontata a 230,25 miliardi, il 12,88% del PIL: un valore in linea con la media europea ma distante da quello che viene effettivamente comunicato dalle nostre istituzioni a Bruxelles.
L’assistenza infatti sarebbe a carico del fisco generale (non del sistema contributivo), ma il problema è che abbiamo un’Evasione fiscale e contributiva di almeno 100 miliardi all’anno.
Lavoriamo poco?Passiamo al lavoro 1668 ore in un anno, contro le 1490 francesi, 1349 tedesche, 1640 spagnole. Media UE 1565 ore (dati OCSE 2021) – Semmai lavoriamo male…
la Produttività del lavoro (inteso come valore aggiunto per ore lavorate) è cresciuta in media del 4-5% all’anno negli anni ’50 e ’60; dagli anni ’70 a metà anni ’90 è cresciuta in media del 2% all’anno; dello 0,4-0,5% dal 1995 al 2021 (nello stesso periodo -1995-2021- in Unione Europea la produttività è cresciuta in media dell’1,3% all’anno).
1^ annotazione: da metà anni ’90 ad oggi col calo dei salari e della domanda interna aggregata cala pure la produttività
2^ annotazione: la capacità produttiva complessiva è più che raddoppiata negli ultimi 50 anni (pur col consistente rallentamento avvenuto negli anni 2000)—-> questo dato supera ampiamente l’andamento del rapporto tra lavoratori attivi e pensionati, che oggi è dell’1,42 (rimasto pressoché identico negli ultimi 30 anni).
Quindi è un errore madornale pensare che tecnica e capacità produttiva rimangano invariati negli anni (senza contare che il livello tecnologico e produttivo di oggi poggia sulle generazioni precedenti).
Disoccupazione totale all’8%, Disoccupazione giovanile al 23%, abbiamo 3 milioni di Neet, ovvero di giovani dai 15 ai 34 anni che non studiano e non lavorano (a “pesare” sulla popolazione attiva non c’è solo la dipendenza post-lavorativa dei pensionati, ma anche la dipendenza pre-lavorativa dei giovani che non lavorano).
Con questo tasso di disoccupazione giovanile chiedere di innalzare l’età pensionabile è come dire che un corpo – perché la società è un corpo unico, non un insieme di monadi – corre più veloce sulle braccia invece che sulle gambe.
Nota: nella prima metà del ‘900, con il progressivo innalzamento dell’obbligo scolastico, dalla parte più conservatrice della società c’erano polemiche simili a quelle di oggi per le pensioni, perché si ritardava l’ingresso al lavoro dei fanciulli e allora si diceva “chi manterrà questi giovani improduttivi?”
Immigrazione: gli Stranieri residenti in Italia sono poco più di 5 milioni (8,5% della popolazione totale). Nel 2022 in Italia (dati Eurostat) i richiedenti asilo sono stati 43.770, cioè pari allo 0.074% della popolazione complessiva (altroché sostituzione etnica!).
La spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in Italia nel 2019 è stata di 25,25 miliardi; i cittadini immigrati hanno contribuito alle entrate dello Stato per 29,25 miliardi (di cui 15,4 di contributi previdenziali) – differenziale 4 miliardi.
Dati del Ministero dell’Economia e Finanze ci dicono che se l’immigrazione diminuisse di 1/3, nei prossimi 50 anni il debito pubblico, oggi al 144% del PIL, salirebbe fino al 200%. Se l’immigrazione aumentasse di 1/3, il debito pubblico scenderebbe sotto al 130% del PIL.
C’è bisogno di maggiore integrazione, perché i migranti non solo non sono un peso, ma anzi portano ricchezza, aumentano la natalità, sostengono le pensioni. Bandi Prefetture finalizzati al controllo piuttosto che all’integrazione (centri con grandi numeri, badge da timbrare). Percorso per ottenere il permesso di soggiorno è una corsa ad ostacoli. Anche l’abolizione della protezione speciale significherà meno lavoratori “in regola” per il sistema turistico…
Se poi vediamo anche altri indicatori…
Investimenti produttivi: in Italia nel 2020 ammontavano al 17,8% del PIL, contro una media OCSE del 22,8% del PIL.
Ricerca e sviluppo: l’Italia investe l’1,5% del PIL, contro il 2,5% della media europea e il 3,5% di paesi come Germania, Belgio, Svezia (e non dimentichiamo che 1 euro investito in ricerca e sviluppo ne porta almeno 5 in crescita del PIL).
….e ricomponiamo tutti questi tasselli in un quadro d’insieme, vedremo che oggi il problema in Italia non è il lavorare di più e più a lungo, ma sono:
- scarsa innovazione,
- bassa produttività,
- lavoro precario e dequalificato,
- scarsi investimenti,
- redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto,
- domanda aggregata (salari, pensioni, welfare) da rilanciare, non da comprimere.
Oggi rilanciare il welfare, redistribuire la ricchezza, rilanciare salari e pensioni è un prerequisito non solo per uno sviluppo più equo, ma anche più efficiente (non c’è bisogno di Marx e Keynes; ce lo dicono economisti “critici” come il nobel Paul Krugman, Thomas Piketty, Giovanni Mazzetti; sociologi come Luciano Gallino, Emilio Reyneri ecc.).
Perché rilanciare il welfare è un prerequisito per uno sviluppo più efficiente?
- Perché c’è un rapporto circolare, di reciprocità, un circolo virtuoso tra sistema produttivo e welfare, non un rapporto lineare; “se infatti è vero che per curare un malato si deve spendere del denaro, è anche vero che spendendo quel denaro si produce un reddito (per medici, infermieri, case farmaceutiche, indotto ecc.) che si aggiunge alla ricchezza prodotta, che poi consente di tornare a curare chi ne ha bisogno, appunto perché c’è più ricchezza di prima” (Giovanni Mazzetti)
- Perché la condizione di qualsiasi occupazione è la domanda aggregata che la genera e che spinge a migliorare le tecnologie produttive, a sviluppare un potenziale produttivo inespresso (Keynes diceva che “occorre distinguere la mancanza di soldi dalla reale mancanza di risorse”).
- Perché + Spesa sociale significa migliore allocazione delle risorse, efficientamento del sistema produttivo, sistema economico + forte
- Perché + istruzione, formazione e ricerca significano + competenze in circolo, + talenti che si sviluppano, +mobilità sociale
- Perché + Sanità pubblica e prevenzione significano popolazione in salute ma anche + efficiente
- Perché + Spesa sociale e + Welfare significano meno disuguaglianze (che sono disfunzionali al sistema economico); infatti + disuguaglianze significano + massa finanziaria in circolo e – risorse investite nell’economia reale, quindi meno crescita
- Perché + Welfare significa – povertà, – criminalità e quindi + fiducia per gli investimenti.
Per questo oggi si parla di “Social Investment State” e di “Active and Inclusive Welfare State”, ovvero del welfare non solo come volano della giustizia sociale ma anche come volano dello sviluppo economico.
Giovanni Mazzetti: «I conservatori – che si illudono di agire da “riformatori” – affrontano la crisi prendendo come fenomeno di riferimento il fatto che “non ci sono i soldi”. Secondo loro i soldi andrebbero recuperati con tagli e risparmi. Ma se per il singolo la disponibilità di denaro può aumentare attraverso una rinuncia a spendere (ma disporrà di meno beni e servizi), per l’insieme della società ciò è impossibile. I soldi, a livello aggregato, non possono derivare da un atto negativo. Al contrario, essi ci sono solo se i soggetti economici (individui, imprese e stato) li spendono, facendoli di volta in volta rientrare nel processo della circolazione monetaria e degli scambi. Infatti, per la società nel suo insieme la quantità di denaro disponibile, in un qualsiasi arco di tempo, è data da M (massa monetaria) moltiplicata per V (velocità con la quale viene spesa).
Se, per “trovare i soldi”, si tagliano i redditi dei lavoratori, dei pensionati e le spese pubbliche, si ottiene l’effetto opposto rispetto a quello sperato, cioè i soldi verranno inevitabilmente a mancare più di prima. Infatti, le spese complessive si contrarranno, la circolazione monetaria e degli scambi verrà ridimensionata, e il problema della disoccupazione diventerà irrisolvibile, perché la leva sulla quale si basa la creazione di lavoro sarà stata depotenziata. Né può bastare, come credono in molti, l’intervento della Banca Centrale, teso ad accrescere la liquidità, perché quel denaro viene usato prevalentemente per acquistare attività finanziarie, riversandosi poi sui mercati speculativi, invece di trasformarsi in domanda solvibile. Così come non si può far affidamento sulle esportazioni, cioè sulla spesa dei cittadini di altri paesi, perché le esportazioni incidono già per un terzo della produzione nazionale, e la crisi ha investito quasi tutti i paesi occidentali.
Pertanto, se la parola d’ordine dei conservatori è “Meno ai padri e più ai figli” (Nicola Rossi), ad essa si deve opporre una prospettiva alternativa, nella quale si spiega che il “Dare di più ai padri, fa avere anche di più ai figli”, con un gioco a somma positiva per entrambi».
La salute psicofisica dei giovani
Durante gli anni della pandemia abbiamo visto una crescita del disagio giovanile:
dispersione scolastica raddoppiata rispetto al 2019 (27% contro 13%)
aumentati del 30% i ricoveri in psichiatria di giovani e giovanissimi per atti di autolesionismo e tentati suicidi
le richieste di aiuto per disturbi alimentari sono aumentate di quasi 1/3
aumentato il consumo di alcool e fenomeni come il binge-drinking (le abbuffate alcoliche)
aumentato l’uso problematico dei social media e l’isolamento sociale (hikikomori). Abbiamo giovani sempre più connessi ma sempre più poveri di relazioni autentiche, sempre più soli.
Aumentati i fenomeni di bullismo e cyberbullismo nel 2022 rispetto al 2019 (indagine HBSC – Healt Behaviour in School-aged Children – Comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare – fascia 11-17 anni).
Oggi permane una sorta di long-covid psicosociale.
Alcuni indicatori che anche nel post-pandemia persiste un disagio accentuato tra i giovani:
300.000 domande per il bonus psicologo: oltre il 60% delle richieste proviene da giovani di età compresa fra i 19 e i 35 anni (il servizio pubblico stenta a dare risposte efficaci).
Indagine “Chiedimi come sto” promossa da Rete Studenti Medi, Unione degli Universitari, SPI CGIL e condotta nel 2022 dall’Istituto di Ricerca IRES Emilia-Romagna; 30.000 studenti superiori e universitari intervistati sui comportamenti tenuti durante (e dopo) la pandemia: il 60% guarda in prospettiva con criticità molto elevata alla propria salute mentale; il 73% ritiene che vi sia una visione sottostimata della propria generazione da parte degli adulti.
In questo quadro complesso è positivo che emergano strumenti innovativi e flessibili per trattare persone fragili, come:
- il Budget di salute (istituito un gruppo di lavoro ad hoc in Regione);
- la Coprogettazione e la Compartecipazione, concetti richiamati anche all’interno della nuova legge regionale sul Terzo Settore
- approcci di Prossimità e improntati alla Comunità curante (cioè intervenire direttamente nei contesti di vita valorizzando le risorse di rete)
Però vi sono anche criticità insite in questi nuovi strumenti:
- spesso questi sono usati come mezzi per abbassare i costi, piuttosto che per rispondere meglio alla domanda di aiuto, per mettere in campo interventi “calzati” sulla persona.
- Spesso manca un approccio integrato tra tutti gli attori in campo, in primis tra quelli pubblici (Sert, CSM, Comuni) che faticano a dialogare tra loro, che faticano a trattare in maniera coordinata pazienti polidiagnosi, persone che necessitano di interventi sia sanitari che sociali.
- C’è una pressione non indifferente sul personale impiegato: questi nuovi approcci “deistituzionalizzanti” richiedono una professionalità e una flessibilità che spesso rischiano di non essere riconosciute e supportate; i nostri operatori sono sempre più in sofferenza e a rischio burn-out, oltre che con stipendi bassi
Il rischio è che – al di là delle parole nuove e accattivanti – i modelli di riferimento siano sempre i soliti:
- “budgettizzazione” (es. lavoratore svantaggiato a cui viene tolta la borsa lavoro da 250 euro/mese perché non rientra più nel budget annuale del CSM; la persona si scompensa e finisce in SPDC per un mese, con retta a 600 euro/die)
- appalti al massimo ribasso (nei servizi socio-sanitari il 90% dei costi è in personale; quindi appaltando un servizio solo col criterio del massimo ribasso o si dequalifica il servizio o si spreme il lavoratore)
Questo, come abbiamo visto sopra, non è solo iniquo ma anche antieconomico
Oggi serve un cambio di paradigma. Occorre avere una visione d’insieme a 360 gradi, uno sguardo olistico.
Avere questo sguardo secondo me oggi è indispensabile se vogliamo una politica di qualità e un governo efficace dei cambiamenti in atto.